Dettato – Sergio Peter

A inaugurare laCopertinaDettato collana Romanzi diretta da Vanni Santoni per la casa editrice pontina Tunué è stato, qualche mese fa, Dettato di Sergio Peter, un libro di piccole dimensioni – poco più di 100 pagine – dalla copertina verde acceso, con una bianchissima casa-albero al centro. La collana, la cui identità è fissata nel principio dello “sconfinamento, che può essere di genere ma anche di taglio, tono o lingua”, non poteva offrire al panorama italiano una prima prova migliore.

“Ovunque io vada, pensavo, mi sembra d’essere fuori luogo”

Dettato si apre con una lirica e vibrante citazione di Robert Walser(*), indizio dell’essenza fondamentale del testo: il rapporto tra uomo e natura. Il libro può di fatto essere letto come la storia del paesaggio montano e lacustre nei pressi di Como: la storia è ambientata nella radura di Gonte, al confine con il Canton Ticino, un territorio quasi ancestrale, atavico. Un non-luogo in cui si adatta meglio la storia di formazione a metà della giovane voce narrante – un io dichiaratamente autobiografico, un bambino discorde, con un dolore luttuoso come marchio di riconoscimento e al di fuori da ogni classico schema comportamentale: quando vede la targa di un’auto ne somma le cifre e ottiene il punteggio che gli sarà attribuito nella prossima verifica. Un bambino che però non si lascia vincere dalla voce suadente della morte: In seconda media va in soffitta. Prende una scala. Vuole salire sul tetto, ma sente le voci dei bambini dal parco: sarà per la prossima volta.

“Cosa devo fare per esser meno solo?”

Il testo, che non ha in realtà un intreccio distinto o una direzione specifica, genera un movimento sussultorio per le strade della memoria in cui il bambino-autore si muove, senza apparente risoluzione. In un paesaggio tipicamente prealpino c’è dunque un bambino che si rincorre alla ricerca di sé stesso: è qui che la natura si fa protagonista, perché le due valli sono la metafora della vita condotta fino a quel momento e dell’incombere di quella futura. L’infanzia è solo una dolorosa zona di passaggio.

“Ciò che fa male è meglio evitarlo”

Ad emergere prepotentemente, facendosi motivo trainante del testo, è la lingua cesellata ma mai noiosa, perché viva e palpitante: come suggerisce il titolo, ciò che Peter ha messo per iscritto è un dettato, cioè un racconto dalle fattezze propriamente orali. Non mancano, infatti, elementi tipici del linguaggio parlato: le frasi spezzate, gli intercalari del luogo (ostia, tra tutti), i termini dialettali, l’urgenza di dire il fatto fondamentale, e poi di spiegarlo (Sette chili ho pescato; in un paio d’ore). Questo sfondamento del linguaggio non è disturbante, ma esalta il piacere della lettura: i frequenti stacchi linguistici – rappresentando lo spartiacque di un mondo che prima era e ora non è più – si legano infatti al tema narrativo principale del racconto, la morte del padre, l’esperienza vissuta e perduta in un passato troppo lontano:

Il papà visse abbastanza per darmi alla luce e regalarmi un sonaglino rosso e giallo a forma di orsetto, poi però il 4 marzo 1988 cadde dall’impalcatura a Lugano e morì.

Le continue allusioni ad avvenimenti non esplicitati rendono il testo a tratti ermetico, senza che questo sia necessariamente un difetto, ma anzi una spia stilistica precisa: quando si racconta ad alta voce, infatti, si perdono sempre dei pezzi per strada. La sperimentazione linguistico-stilistica, dove non si procede per sottrazione di contenuto ma per mutazione di forma, è quindi una raffinata ricerca di territori espressivi rimasti ancora inesplorati: in questo modo il dialetto si trasforma in poesia, con la sua ritmica interna, i suoi significati nascosti, il suo tempo sospeso, la sua labilità di forma.

Nell’intermezzo prima dell’ultimo capitolo è presente un gruppo di lettere “di gente comune”, trascritte in un italiano sconnesso, tipico dei semianalfabeti: la parte più preziosa del libro. Tra tutti spicca il personaggio dell’Ermanno: il poeta contadino, che ci conduce con grazia al capitolo finale. La memoria personale diventa memoria collettiva, in un movimento circolare che non trova mai il suo centro, ed è per questo che è mimetico della vita.

Il celeste del lago è più bello di quello sopra le teste di tutti, anche se da esso trae vita. Migliore perché lo puoi toccare, bere, avere a che fare con lui e tuffartici dentro. È più vero, poi: poiché se tu ti specchi insieme al cielo, entri a farne parte per un attimo.

Sergio Peter, Dettato, 
pp. 112,
 Tunué, 2014

(*) In mezzo a pascoli

che erano più vicini al cielo

di qualsiasi civiltà umana.

(I fratelli Tanner)