Happy hour – Mary Miller

Happy HourL’americana Mary Miller era già arrivata in Italia con Last Days of California, edito Clichy, un romanzo on the road sull’orlo del giorno del Giudizio; adesso ritorna con Happy Hour, una raccolta di sedici spietati racconti per Edizioni Black Coffee.

Non sbagliare, perché quando inizi è un incubo smettere e poi arriva un momento in cui non sai più fare altro.

Una raccolta che si apre con la dedica Ai miei ex ha solo due possibilità: raccogliere le sbronze isteriche di chi ha perso la battaglia dei sentimenti oppure raccontare senza orpelli la meschinità dei rapporti umani, senza indagare le cause dei colpevoli, senza osannare il sesso femminile.

Mary Miller accoglie la seconda istanza, rendendo protagonista di questi racconti la fragilità della donna moderna spiantata e derisa, accoccolata nella sua incapacità di pretendere di meglio. L’emblema su cui gravita l’ombra di un dubbio sfibrante: quello di non essere mai all’altezza di sé stessa.

Non sono né una tipa sportiva né una secchiona. Non sono mai né bella né brutta, né grassa né magra. A un certo punto smetterò di sforzarmi di sembrare qualcosa e sarò semplicemente vecchia.

Senza alcuna critica velatamente post-femminista, per la Miller nel gioco di coppia il ruolo dominante è dell’uomo, pur essendo sempre sfuggente alle logiche del confronto: alla sua assenza di voce corrisponde la mancata possibilità di riscatto.

Questi uomini inutili, spesso miserabili, si muovono dietro le quinte nelle vite di donne che hanno un cattivo rapporto con la madre, che bevono sempre una birra di troppo, che non hanno ambizioni, che si rinchiudono in una realtà psicotica e aberrante. Un fascio di luce, qui e là, illumina le loro motivazioni: sono spossate dalla vita, colpa di una lotta continua con la paura della perdita.

“Andiamo a vivere lì, un giorno?” chiedo al mio ragazzo, e lui dice di sì. Dice sempre di sì quando gli chiedo cose del genere. Dice certo, ok e io sono contenta. Ma lo sa che scherzo, non ci voglio andare a vivere davvero in una casa come quella. Lo capisco anch’io che l’unico modo che abbiamo di cavarcela è restare in mezzo a disabili e ubriaconi, legare le nostre vite alle tristi e inutili esistenze di gente messa peggio di noi.

Happy hour è una raccolta di ritratti immersi nell’inettitudine e nella solitudine: queste donne confuse, incapaci di cedere alle lusinghe della vita sono le ragazze interrotte di questo secolo, in una società vuota nei suoi modelli arrivisti facili e inutili.

Ne esce fuori un quadro certosino, neanche troppo esacerbato, di una disfunzione dei sentimenti e delle relazioni.

Ma per intelligente che sia, sono sempre io quella che si sente fuori posto.

Seppure possa sembrare un limite il fatto che le protagoniste siano spesso interscambiabili tra loro e poco riescano ad entrare in empatia con la versione maschile della storia, in realtà si cela un intento specifico: quello di rappresentare un esercito di donne che si annullano.

A sottolinearlo c’è il racconto meno ombelicale di tutti: Un amore grande, grosso e cattivo.

La protagonista lavora in un centro di recupero per bambini abusati: a differenza delle precedenti narrazioni legate all’intreccio, qui è l’indagine sociologica a sciogliersi in materia narrativa. È l’acme di una serie di tensioni che si accumulano nei racconti precedenti e rassicura il lettore, anche se solo per un momento: la colpa non è della parte femminile, che si sottomette, né di quella maschile, che sottomette incosapevolmente. La colpa, se c’è, è dell’alienazione dei nostri tempi, che infatti si ripropone nei racconti successivi, in un cerchio infinito di distruzione e autodistruzione.

Queste donne che subiscono senza reagire propongono un modello difettoso ma non irreale: purtroppo è ancora facile rispecchiarsi nei loro silenzi sofferti, nella narcotica abolizione del pensiero, in quel sottrarsi alla vita abulico e costante.

E improvvisamente è chiaro che c’è ancora molto lavoro da fare.

Cin cin.

Mary Miller, Happy hour, 
pp. 264,
 Edizioni Black Coffee, 2017