Il giro del miele – Sandro Campani

ilgirodelmieleMuoversi di frazione in frazione, trasportando piccoli barattoli di miele fatto in casa, arrancando per arrivare a fine mese: è la vita precaria di Davide e Silvia, novelli sposi di un paese dell’Appennino emiliano.

Un’instabilità economica che genera mostri più di qualsiasi sonno della contemporaneità è la condanna che affligge la coppia, il cui ritratto del disfacimento è raccontato dallo stesso Davide.

Mi chiedo se la lince sia là dietro; da me si farebbe vedere? Dov’è? La lince si muove in silenzio, da qualche parte, qui fuori. Se custodisce un segreto, dovremmo offrirle in cambio qualcosa, affinché ce lo riveli.

È notte e mentre un animale, forse una lince, si aggira nei boschi della zona, qualcuno bussa alla porta di Giampiero, il falegname del paese: è Davide, giunto per una resa dei conti. I due segnano una tacca sulla bottiglia di grappa: la chiacchiera terminerà una volta giunti lì.

Si articola in questa cornice di impronta teatrale, senza mai assumere sembianze artefatte, la narrazione pura e potente di Sandro Campani de Il giro del miele, edito Einaudi.

Prima di tutto questo, quella notte a casa loro, noi stesi nel letto della camera degli ospiti, la Silvia e Davide abbracciati in piedi oltre la porta, nell’amore coniugale ancora vivo, e le api in glomere negli alveari, e il cane di Rumpili nella cuccia, i bambini del pulmini in vacanza per Natale, nonostante il ghiaccio che pioveva fuori, tutti davamo per scontato che, assecondando la natura, quel che poteva aspettarci era soltanto primavera.

Che si tratti della storia di un rapporto che si incrina fino a rompersi definitivamente, lo si apprende fin dalle prime pagine; eppure l’atmosfera che si instaura tra i due uomini è quella di una dolorosa ricerca, tra le maglie di una storia imparata a memoria, al particolare nuovo e risolutivo.

Alle radici del racconto si impianta una malinconia dimessa, che non esplode mai: Davide mostra la sua intimità senza giungere a una spiegazione definitiva, esattamente come la lince che si aggira senza lanciarsi mai nell’agguato decisivo.

L’amarezza dell’incomprensione che ha segnato la sua relazione ha, d’altronde delle radici comportamentali di tradizione familiare: il padre Uliano, infatti, non riuscendo ad amare il figlio, preferì lasciare la sua attività a Giampiero. Senza spiegazione.

Ma questa lontananza paterna, piena di silenzi e rimorsi, eco di un ciclo millenario, cerca di accorciarsi quando Davide decide di dedicarsi alle api, antica passione di Uliano.

Sullo sfondo, un’ingombrante provincia desolata e senza tempo, volutamente lontana da qualsiasi opportunità di crescita, da ogni possibile costruzione di un rapporto umano decente: un’immobilità che irretisce la piccola comunità a cui non è concesso avere turbamenti.

Quel senso di inadeguatezza nel mondo che si risolve nella stasi è ciò che caratterizza Davide, ma che invece rifugge Silvia: uno scontro che Campani non banalizza in abusati dualismi narrativi vuoti né si preoccupa di elaborare in accorate disamine sociologiche. Tra i due coniugi nasce una danza fuori tempo, fatta di incomprensioni, passi falsi e incomunicabilità: nulla a che vedere con l’accuratezza dei movimenti eleganti delle coreografie delle api.

La deriva di Davide, infatti, arriva senza preavviso: alcol e violenza si impossessano di lui, ma non in maniera plateale. La sua è, anzi, la storia di una degenerazione senza la pornografia della brutalità e della perversione.

L’insoddisfazione di Silvia (“Non voleva più sentirsi finta, sprecata, disperata, a correre verso un niente di niente. Avrebbe voluto soltanto sentire che […] non c’era più da esporre né da dimostrare, né da pretendere nulla”) cede lentamente il passo a una paura che non è mai accecante, ma che si insinua sottilmente fino a distruggere la coppia:

Voleva il fuoco del camino com’era lì nella casa sopra la falegnameria vecchia, il fuoco armonioso e crepitante che c’è nei posti rustici e alla mano mentre fuori è freddo e ci sono poche luci, anzi nessuna, e ti viene servita una zuppa da mangiare, e non importa nemmeno se quel calore è a comando e tu sei ospite pagante, basta che tutti siano gentili, con te e fra di loro, perché da quello dipende la salvezza.

Là dov’era Davide adesso, lei era certa che non poteva esserci quel fuoco. Era un luogo estraneo, e forse Davide ne faceva irrimediabilmente parte. Lei l’avrebbe protetto, se lui gliene avesse dato la possibilità. Ma chi si sarebbe occupato di proteggere lei?

Con una prosa corposa e delicata, Sandro Campani s’inoltra nei territori battuti dal Pavese dei Dialoghi di Leucò o dal McCarthy di Sunset Limited, plasmandoli verso un nuovo modo di cantare l’unione di due anime alla deriva e offrendo una pungente visione dello scontro sentimentale ai tempi della repressione.

Resta solo il sapore amaro della grappa, mentre fuori impazza il vento, che porta via le ultime parole di una storia d’amore senza redenzione.

E quando pure il fuoco finisce lentamente di scoppiettare, non resta che accogliere l’eredità del fallimento.

Sandro Campani, Il giro del miele, 
pp. 248, Einaudi, 2017