L’amante di Wittgenstein – David Markson

“Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa”: così dichiarava il filosofo austriaco Wittgenstein sul letto di morte, a metà dello scorso secolo, dopo una vita di elucubrazioni al limite della schizofrenia e soluzioni filosofiche illuminanti. L’unica opera che riuscì a pubblicare in vita fu il Tractatus Logico-Philosophicus, un testo che ha avuto un ruolo chiave nella rivoluzione nella filosofia del linguaggio, da lui inteso come strumento per studiare la realtà che quello stesso linguaggio ha la pretesa di rappresentare e classificare.

“Il mondo è tutto ciò che accade”: la realtà è dunque, per il filosofo, solo una grande massa di dati e il compito del linguaggio è quello intrinseco di dichiarare questi dati di fatto, raffigurando in questo modo il mondo stesso.

Della rappresentazione del mondo attraverso il linguaggio ne sono nate varieMARKSONCopertina_singola interpretazioni critiche, nuove speculazioni filosofiche e numerose rielaborazioni letterarie.

È in questa schiera ben nutrita che si inserisce L’amante di Wittgenstein, romanzo sperimentale di David Markson pubblicato nel 1988 (dopo ben 44 rifiuti) e giunto finalmente in Italia – nella raffinata traduzione di Sara Reggiani – nella giovane collana Black Coffee per i tipi delle Edizioni Clichy. In calce al volume La pienezza vuota, un lungo ed esauriente saggio di David Foster Wallace – studioso di Wittgenstein già in tempi non sospetti, cui rese omaggio nella sua tesi di laurea, poi romanzo d’esordio, La scopa del sistema – tradotto dall’infaticabile Martina Testa.

Per quanto è indubbio che la questione che ho in mente ora sia che, se tante cose esistono solo nella mia testa, una volta che mi siedo qui iniziano a esistere anche su queste pagine.

Si presume che esistano anche su queste pagine.

Se queste pagine fossero lette da qualcuno che parla soltanto russo, d’altro canto, non ho idea di che cosa esisterebbe su queste pagine.

Non parlando una parola di russo, tuttavia, credo di poter affermare con un certo grado di sicurezza che le cose che sono esistite nella mia testa ora esistono anche su queste pagine.

Be’, alcune, se non altro.

Non si può esprimere tutto ciò che esiste nella propria testa.

Né esserne consapevole, ovviamente.

Kate è l’unica donna rimasta sulla terra, o almeno così dice: lascia biglietti in giro per le città (“Qualcuno vive nel Louvre”, “Qualcuno vive nella National Gallery” e così via), trova rifugio nei musei e per scaldarsi brucia opere d’arte.

Ha una cinquantina d’anni, forse meno. Probabilmente lavorava nel campo dell’arte, forse come pittrice. Aveva una famiglia, sicuramente un marito da cui ha divorziato, e poi un figlio il cui nome presumibilmente era Adam. O forse no.

Si sposta da una parte all’altra del mondo con le auto trovate in giro finché la benzina non termina e, dopo lungo peregrinare, si stabilisce su una casa vista spiaggia non meglio identificata, dopo aver inavvertitamente bruciato un’altra abitazione lì nei pressi.

Una volta qualcuno chiese a Robert Schumann di spiegare il significato di un certo brano musicale che aveva appena eseguito al pianoforte.

Ciò che Robert Schumann fece fu risedersi al piano e suonare il brano da capo.

Troverei senz’altro piacevole credere, con questo, di aver risolto ogni questione da me precedentemente esposta.

Di qualunque cosa stessi parlando.

A dire il vero non mi dispiacerebbe nemmeno non aver perso completamente il filo di ciò che stavo dicendo.

Nonostante la memoria vacillante, i ricordi che si mescolano e che spesso si perdono in quel mare oscuro che è l’oblio, è Kate – e chi altri, visto che il mondo si è improvvisamente svuotato? – l’inaffidabile voce narrante: il suo racconto è un flusso di coscienza contradditorio messo nero su bianco, un esercizio che non è fine a sé stesso ma che le si rivela utile per non perdere gli ultimi frammenti di umanità.

Resoconti della quotidianità (il bucato steso sui cespugli, le passeggiate in riva al mare, i disturbi del ciclo) si intrecciano senza ordine né preciso motivo ad aneddotica di ogni genere, con una predilezione per il mondo dell’arte e la mitologia greca.

Uno scenario post-apocalittico del genere si riverbera dunque nella mente di Kate in palese difficoltà: il carattere paradigmatico del suo racconto è la costruzione vertiginosa su continue ripetizioni e ricombinazioni, uno strumento stilistico che permette a Markson di sviluppare in forma narrativa e immaginaria il mondo matematico e metafisico del Tractatus.

Il lungo dramma monologante di Kate è un canto dell’annientamento di sé stessa alla deriva nel mondo e un’introspezione sull’esterno, sulla struttura del mondo e su come esso dovrebbe essere. Il memoriale cerebrale e fitto di periodi brevi è la soluzione che Kate adotta per risolvere le contraddizioni della realtà: il linguaggio, ancora una volta, wittgensteiniamente si rivela lo strumento per disinnescare la complessità dell’esperienza.

Markson dunque, come osserva Wallace, “ha dato sostanza ai disegni astratti della dottrina wittgensteiniana trasformandoli nel teatro concreto della solitudine umana”: è l’assenza di comunicabilità del reale per mezzo del linguaggio quel cortocircuito che L’amante di Wittgenstein mette in scena con impietosa precisione, attraverso nervosi frammenti prosaici, cupe riflessioni deliranti sulla memoria inattendibile e metafore (non troppo sottili) della solitudine e dell’abbandono – del sé frantumato e del mondo.

Attraverso le rappresentazioni mentali di Kate in un fluire corposo e granulare e, soprattutto, attraverso le meditazioni della donna sull’ontologica realtà di ciò che viene nominato, Markson ha creato un libro potente, sfaccettato, che indispone il lettore e lo mette in crisi, senza alcuna mediazione, senza nessuna esemplificazione. Specularmente a Kate con il mondo, a rimanere solo davanti la pagina è chi legge, costretto a ribadire costantemente la sua solitudine mentre attende quella ratio catartica che solo la conclusione della storia in teoria dovrebbe offrirgli, ma che invece gli viene negata.

La follia di Kate, l’ultima donna al mondo che salva sé stessa rinnegando la sconfitta, convince il lettore a cedere alle lusinghe di Wittgenstein, ammettendo una sottaciuta verità: è liberatorio giocare col linguaggio per limare le zone buie della solitudine, senza mai cedere il passo alla luce totale, senza provarci veramente. Senza averne davvero bisogno.

David Markson, L’amante di Wittgenstein, 
pp. 320,
 Edizioni Clichy, 2016