Yellow birds – Kevin Powers

Protagonista del romanzo è l’alter ego dello scrittore, un veterano scopertosi poeta e romanziere: è Bartle, un ragazzino della periferia americana che narra in medias res la guerra irachena. O meglio, ne utilizza lo sfondo per mettere in scena la fragilità dei legami tra esseri umani, che dimostra attraverso il rituale delle promesse: farle è un impegno totalizzante, e in certi casi punitivo, quasi mai portato a termine. Perché l’essere umano non ha doti, è solo destinato a fallire, e l’uomo non può avere fede, perché è limitato nella sua finitezza.

“Ora lo so: il dolore è tutto uguale, cambiano solo i dettagli.”

Bartle non narra, enuclea fatti che hanno a che fare con i resti frantumati di sé stesso. Vittima della guerra ingaggiata con i ricordi dilanianti di un’amicizia infranta sul nascere, la sua voce scorre in capitoli tragici e pieni di pathos. Il vero protagonista è il senso di colpa, il vero dramma che porta alla deriva emotiva Bartle, costretto alla quotidianità di una vita senza Murphy – e la consapevolezza di non averlo riportato alla madre, come promesso in un attimo di distrazione intenzionale. Chi legge non deve com-patire il ragazzo, perché non può assistere alla sua assoluzione; piuttosto, ha la posizione privilegiata per partecipare da spettatore al tormento del protagonista, che nulla ha a che vedere con l’inferno della guerra, quasi meno caotico rispetto a quello dei suoi pensieri.

ImmagineLa guerra è certamente il nucleo tematico centrale, come avverte già il titolo, tratto da una marcia militare. Ma la guerra irachena, seppur materiale resta incidentale e rimane sullo sfondo, per far da proscenio alla guerra interna, alla lotta di Bartle nell’emanciparsi dall’esperienza terribile. Gli agguati notturni, i fucili, la polvere, la puzza di bruciato, il caldo asfissiante, il profumo dei giacinti, le visioni di carne umana maciullata, tutto è descritto con perizia. Ma gli elementi intratestuali reggono solo alla più grande metafora della guerra personale di Bartle.

Nelle parole di Powers non c’è una critica sincera, né tantomeno un elogio appassionato all’America interventista: ad esempio, nessun militare ha le fattezze del classico ‘eroe americano’. Il testo, trasferendo l’argomento sul piano strettamente personale e attraverso uno spostamento sul piano lirico, vanta una posizione imparziale, a discapito tuttavia di un’auspicata presa di posizione politica, che nella narrativa moderna potrebbe giovare alla formazione ideologica dei più giovani o degli ignari sull’argomento. L’Iraq si fa dunque un terreno neutro e senza connotati descrittivi potrebbe essere ogni suolo: Al Tafar è qualunque posto, su cui qualsiasi persona potrebbe poggiare il piede.

Non mancano gli elementi strettamente contingenti alla realtà della guerra: la lontananza da casa, la prima uccisione di un uomo, il sonno perso e mai più recuperato, la frustrazione per la morte di colleghi diventati amici sul campo di battaglia: l’apatia come soluzione di sopravvivenza in guerra si trasforma in alienazione in America, ma non deraglia mai in individualismo estremo; elementi tutti funzionali al monologo del protagonista, un lungo flusso di coscienza spesso interrotto da visioni e sogni. In definitiva, la guerra è presentata solamente come stato sospeso della coscienza.

Benchè Yellow birds sia stato definito una lunga poesia, più corretta invece è l’idea del testo come un lungo canto: la musicalità di certe scene, le pause simmetriche, i respiri della prosa, l’alternanza di una voce sola e di cori diversi (i soldati, la società, la comunità dei lettori), sono tutti elementi che riconducono all’immediatezza della tipica canzone pop americana, piuttosto che all’elitarismo della poesia.

A dominare sono infatti frasi secche e semplici, ma la prosa non resta asciutta e tende in ogni caso verso il lirismo, cui portavoce principale è l’elemento naturalistico e paesaggistico. Non è un caso che il testo inizi con la collocazione temporale in primavera, che segna l’inizio della vita ma anche della narrazione. Yellow birds s’impone dunque come una storia di crescita che, come tutte le crescite, si nutre di dolore; è una sorta di Bildungsroman rivisto, con obiettivo finale la catarsi, cioè la sofferenza per la purificazione, per una crescita definitiva.

Kevin Powers, Yellow birds, pp. 200, Einaudi, 2013